L’albero della sopravvivenza


“Ur arbur” in dialetto non significa un albero generico ma corrisponde precisamente al castagno. Già questa semplice constatazione è una chiara indicazione dell’importanza e del legame che per decine di secoli la popolazione delle valli subalpine -ma non solo - ha avuto con questa essenza vegetale al punto tale da diventare un elemento essenziale per la sua sopravvivenza.

L’alto valore nutritivo della castagna congiunto con una ottima conservabilità, se essiccata, permetteva alla gente povera o totalmente dipendente dalle risorse locali della terra di superare quei mesi da fine inverno a giugno in cui non si poteva disporre di prodotti freschi e nel contempo le altre riserve alimentari stavano per finire. Anche dopo l’arrivo del mais e della patata, la castagna ha mantenuto la sua importanza grazie alla maggiore resistenza alle bizze del tempo e alle malattie. Come si può intuire la castagna non veniva mangiata solo come caldarrosta ma soprattutto come prodotto secco intero o macinato a farina. Ciò permette numerose applicazioni in altrettanto numerose ricette.

Nella selva tradizionale le varietà di castagne erano diverse. Pochi sono gli alberi che portavano frutti precoci di taglia più grossa ideali come caldarroste, più frequenti sono invece le varietà più idonee alla conservazione (di taglia più piccola), farinose e spesso di sapore più dolce o aromatico. L’operazione dell’essiccazione (caricare la “grà”) e della battitura o trebbiatura assumeva una grande importanza nel villaggio, quasi come un rituale, ed era occasione anche di festa o di incontro tra le persone.

La posizione decisiva del frutto nell’alimentazione ha offuscato altre caratteristiche dell’albero della sopravvivenza che non sono da sottovalutare in una società dipendente dalle risorse locali.

Il castagno poteva essere piantato anche su terreni poco produttivi come gli affioramenti rocciosi o detriti di frane dove altre coltivazioni non erano possibili. Le foglie secche venivano utilizzate come lettiera per il bestiame nelle stalle per cui erano una componente importante del letame, unico concime disponibile. La foglia verde dei succhioni, se essiccata all’ombra, era un foraggio apprezzato, i rami secchi erano tutti utilizzati come combustibile e dagli alberi che venivano abbattuti si ricavava legname d’opera che ha la caratteristica di conservarsi meglio di altre essenze legnose ed ha perfino un’azione repellente per gli insetti che evitano armadi e madie per gli alimenti fatte in legno di castagno.Il castagno grazie all’alto contenuto di tannino permetteva anche di conciare le pelli.

Nelle aree più discoste il bosco ceduo di castagno dava un’abbondante produzione regolare, quasi intensiva, di pali e di legna da ardere. La resistenza agli incendi di questa specie, oltre che all’effetto di barriera delle selve il cui sottobosco era sempre curato e ben pulito, hanno sicuramente evitato in molte regioni dissesti idrogeologici tali da compromettere l’esistenza della stessa comunità umana.

Buona parte del paesaggio dell’arco sud alpino al di sotto dei 1000 metri di altitudine è determinato dalla presenza del castagno e il modo con cui veniva utilizzato questo albero costituiva un elemento essenziale della diversità e specificità di quel territorio.

La stretta simbiosi castagno-uomo che è durata quasi due millenni rimane ancora profondamente ancorata nel subconscio delle nostre popolazioni anche se lo sfrenato sviluppo economico del dopoguerra ha contribuito a svalutare tutto quanto era importante nella vita rurale locale, relegando ciò che resta nei musei o nei nostalgici racconti di coloro che hanno vissuto ancora quei tempi.

Fortunatamente negli ultimi anni sono nate numerose iniziative che riscoprono quest’albero e cercano di valorizzarlo secondo le attuali esigenze e possibilità. In Ticino agli inizi degli anni ottanta nessuno avrebbe creduto che fosse possibile commercializzare la castagna nostrana, oggi ciò si è avverato. Una piccola dimostrazione che ancora attualmente e sicuramente maggiormente domani il castagno rimane il nostro albero della sopravvivenza.

 

Daniele Ryser