La Swisscom non è una slotmaschine


La proposta del Consiglio federale di (s)vendere le azioni di Swisscom solleva presso il semplice cittadino alcuni interrogativi che meritano alcune considerazioni.

Una prima domanda logica, ma sempre ignorata nel campo delle numerose privatizzazioni dei servizi pubblici avvenute nell’ultimo decennio, è la seguente: la Swisscom attuale scaturisce dalle ormai storiche PTT e quindi da un ente pubblico che era di proprietà dello Stato e quindi di tutti i cittadini, perché venderla di nuovo agli stessi cittadini? Infatti già nella prima fase di privatizzazione l’idea di vendere alla popolazione le azioni equivaleva a far comperare qualcosa di cui si era già proprietari.

In seguito si è poi verificato che di fatto le azioni tendevano a concentrarsi in mano di pochi i cui interessi non sono necessariamente corrispondenti all’obiettivo di garantire un servizio utile a tutti.

Nel frattempo l’azienda ha fatto la sua evoluzione e, pur riconoscendo il suo successo sul piano finanziario e anche tecnologico, l’operazione non è stata innocua per migliaia di lavoratori lasciati a casa prematuramente.

Ora la Confederazione vuole disfarsi di tutta la sua parte facendo credere che si possa costituire un azionariato diffuso così da impedire la dipendenza dell’azienda da altre grosse entità soprattutto di origine estera. Tutti sanno benissimo che una tale assicurazione non può essere data e che presto o tardi il pericolo di essere fagocitati sul mercato mondiale è quasi inevitabile.

Una seconda domanda riguarda la garanzia del servizio di base. Anche in questo caso le disposizioni legislative possono garantire solo fino a un certo punto un‘offerta minima sul territorio. Infatti definire la soglia minima dell’offerta di base in tempi di forte evoluzione tecnologica non è cosa evidente e il pericolo di una sempre maggiore disparità di servizio tra le regioni svizzere aumentérà in maniera direttamente proporzionale al diminuire del peso dell’ente pubblico in seno all’azienda. Già nell’attuale gara nell’offerta di tariffe “vantaggiose” tra le varie compagnie, non si riesce più a distinguere quello che potrà essere il reale risparmio per l’utente, visto che il tutto è finalizzato a massimizzare le frequenza e il tempo di comunicazione in settori di grande consumo e ben al di là di quelle che sarebbero le reali necessità di comunicazione. D’altra parte già sin d’ora in alcune aree del nostro paese di fa fatica ad accedere a quelle tecnologie che servono al settore produttivo e dei servizi.

Una terza domanda che merita una riflessione è perché la Confederazione (l’ente pubblico) non deve assolutamente partecipare alla gestione di questa azienda. Quali ostacoli ci sono realmente? Le capacità e il dinamismo di chi rappresenta lo Stato sono veramente così ridotte? Su questi aspetti non vi sono mai state delle risposte molto chiare se non quella di lasciare piena libertà di azione ai dirigenti aziendali, ma per che cosa? Gli esempi sono ormai numerosi in cui delle aziende che operavano nel settore del servizio pubblico sono diventate con la loro privatizzazione la piattaforma per mere operazioni finanziarie il cui scopo unico è quello di produrre dei dividendi a favore di chi detiene le azioni mettendo in secondo rango tutti gli altri obiettivi per cui sono state costituite.

Alle argomentazioni precedenti, che sono state espresse da più parti, si è risposto che le leggi attuali sono sufficienti a correggere eventuali distorsioni e che dopo tutto le vendita delle azioni apporta del denaro alle casse pubbliche.

Come già si è potuto constatare il controllo di un’azienda come questa è molto difficile e implica comunque un apparato minimo di persone competenti. L’alternativa di poter codecidere nelle strategie aziendali darebbe sicuramente migliori risultati sul lungo periodo perché più facilmente orientabili verso un rafforzamento di un servizio di base essenziale ad incentivare tutte le attività economiche del paese.

L’apporto di denaro alle casse pubbliche che nella formula dell’azionariato diffuso è di fatto un sussidio allo Stato da parte dei cittadini, risulta in pratica un’operazione a risultato zero ciò che equivale a una semplice cosmesi finanziaria senza contribuire o almeno garantire le premesse di un servizio pubblico di qualità a lungo termine e quindi una vera crescita socioeconomica del paese. Va inoltre non dimenticato che la destinazione di questi introiti sarà probabilmente oggetto di inutili divergenze e sterili discussioni come quelle sull’oro della Banca Nazionale.

L’acceso dibattito che ha innescato la consultazione in corso è un indicatore di una certa preoccupazione sul futuro delle ex regie ma soprattutto sulla garanzia a lungo termine di un servizio fondamentale per tutti. Le stesse misure di accompagnamento allegate al rapporto del Consiglio federale lasciano trasparire una certa insicurezza da parte dello stesso Governo sulla possibilità di mantenere un controllo minimo dell’evoluzione futura della Swisscom.

L’apertura verso l’esterno e la partecipazione della Confederazione non sono necessariamente inconciliabili ma possono essere anche una buona occasione di collaborazioni e sinergie tra nazioni nel campo della comunicazione, un settore che non potrà mai essere lasciato totalmente in balia della libera concorrenza.

                                                                                    6 febbraio 2006, Daniele Ryser, Novaggio